Area Science Park
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Andrea Masè, AD del Gruppo Masè, racconta l’incontro con AREA e la svolta per i suoi progetti di innovazione 

Nella morsa del caldo


04.10.2011 -

di Michele Scozzai

 

Nel 1870 Trieste era un'altra città. Assediata dalle richieste del ceto capitalista locale, l'Austria aveva da pochi anni aperto il primo collegamento ferroviario con Vienna. I traffici commerciali presero il volo e il comparto marittimo conobbe uno dei suoi periodi migliori: alla vigilia del primo conflitto mondiale, il porto era uno dei sette scali più importanti del mondo.

 

Anche l'industria - sul finire del secolo - trovò a Trieste terreno fertile e almeno 35-40.000 persone, provenienti dal resto della penisola, confluirono in città in cerca di lavoro e fortuna. Tra quelle persone c'era anche il padre di mio nonno. Quando giunse a Trieste, e Dio solo sa con quali e quanti sacrifici, il mio bisnonno aprì un negozio: i nostri prodotti riscossero da subito una buona popolarità e così potemmo continuare a credere all'amara bellezza di quel sogno da montanari un po' scontrosi.

 

Differenziarsi per emergere

 

Faccio parte della quarta generazione dei Masè "triestini": oggi l'azienda continua a portare il nome di famiglia ed è cresciuta come il mio bisnonno avrebbe voluto. Negli ultimi quarant'anni siamo passati da un laboratorio artigianale a una società per azioni con oltre cento dipendenti, 11 milioni di fatturato e 18 punti vendita. Produciamo quasi esclusivamente prodotti di salumeria tipici della tradizione triestina: in testa a tutti, il prosciutto cotto caldo, che in nessun'altra parte d'Italia esiste.

 

Negli ultimi anni l'azienda ha percepito il desiderio di rinnovarsi, di reinterpretarsi. La concorrenza è forte, e chi vuole rimanere sul mercato deve differenziarsi: rimanere fermi - nel nostro come in altri comparti - significa morire. Da qui, da questo contesto, a volte incerto, a volte entusiasmante per le sfide che ci pone, nasce il nostro rapporto con AREA Science Park e con un modo per noi insolito di fare innovazione. Il prosciutto cotto caldo è, per l'alimentazione dei triestini, un punto di rifermento. In città rappresenta quasi il 25% delle nostre vendite. È il nostro ariete, il nostro carburante.

 

Tuttavia presenta un fattore di debolezza attorno al quale mi arrovellavo da almeno dieci anni: la legge italiana, infatti, prevede per i prodotti alimentari una catena calda e una catena fredda. Le due catene non possono intrecciarsi: se un prodotto esce dallo stabilimento a una temperatura compresa fra 0 e 4 gradi, deve arrivare al consumatore alla stessa temperatura. Viceversa, se esce caldo, deve arrivare caldo anche all'utente. Il nostro prosciutto viene cotto in azienda durante la notte e, come il pane, viene consegnato caldo la mattina ai rivenditori. Il problema è che nell'arco di poche ore si raffredda e la qualità del prodotto inevitabilmente si indebolisce.

 

Le autorità sanitarie hanno sempre tollerato questa consuetudine, essendo radicata da oltre un secolo, ma mai di buon grado. La normativa impedisce di esportare il prodotto non solo a livello nazionale, ma anche regionale: mantenere la temperatura costante fino a Monfalcone, evitando il deteriorarsi della coscia, è già un'impresa. Abbiamo provato di tutto: lampade a incandescenza, vapori. Ma sempre con risultati scarsi, di fatto inapplicabili. E il prosciutto cotto, come tanti sanno, dà il meglio di sé proprio quando è caldo.

 

L'incontro con AREA e la svolta

 

La svolta risale al 2005. Quell'anno sono venuti a farmi visita alcuni rappresentanti del Servizio di trasferimento tecnologico di AREA Science Park. Mi chiesero se avessi un problema, e mi dissero che loro erano lì per risolverlo (o almeno per provarci). All'inizio non li presi sul serio e francamente non nascosi il mio scetticismo: dentro di me sentivo che sarebbe stato l'ennesimo tentativo a vuoto.

 

Senza contare che avevo sempre immaginato che i laboratori di Padriciano e Basovizza facessero ricerca scientifica con applicazioni poco compatibili con l'industria. Una ricerca fine a se stessa, insomma, priva di ricadute economiche e sociali. Ma in quel momento non avevo niente da perdere, e così accettai l'ennesimo confronto con i miei prosciutti. Un confronto impari, pensavo: ma quella volta, insieme ad AREA, grazie ad AREA, l'avremmo vinto.

 

Cosce e pomodori

 

AREA avviò una ricerca brevettuale e, dopo qualche settimana, mi accennò al fatto che nel settore delle conserve, per il trattamento dei pomodori, era in uso da tempo una tecnologia che forse poteva essere adattata alle nostre esigenze. Realizzato un prototipo, valutate le problematiche igienico-sanitarie ed ergonomiche, ci trasferimmo alla Stazione Sperimentale per l'Industria delle Conserve Alimentari di Parma (SSICA) per i primi test. Avevamo bisogno di un'attrezzatura che scaldasse il prosciutto dall'interno, visto che tutti i tentativi di farlo dall'esterno erano precipitati nel nulla. Optammo per una macchina che, attraverso una serie di aghi conduttori di corrente, potesse mantenere costante la temperatura del prodotto.

 

A Parma presero un prosciutto e lo riempirono di sondini: il laboratorio assomigliava a una sala operatoria. Quando accesero la macchina, consentendo il passaggio di corrente, rimasi con il fiato sospeso per alcuni secondi. Un monitor indicava la temperatura interna della coscia: era importante che non scendesse sotto la soglia dei 60 gradi. Non so quanto tempo passò, ma la temperatura tenne e per me fu la soddisfazione più grande. «Funziona» esclamai «funziona!», sentendomi Peter Cushing nei panni di Victor Frankenstein. In quel momento capii che eravamo vicinissimi al traguardo: la strada era ancora lunga e tortuosa, ma mai avevamo compiuto un passo così importante.

 

La messa a punto della tecnologia

 

AREA continuò a seguirmi: analizzammo la tecnologia e verificammo se fosse brevettabile: seppure largamente nota, la procedura era applicata in settori completamente diversi dal nostro. Nulla, quindi, ci poteva impedire di depositare un brevetto europeo. Ora il prototipo definitivo, realizzato da una ditta pordenonese e validato da SSICA, è pronto: le Autorità sanitarie l'hanno approvato e presto cominceremo a costruire in serie le prime 100 macchine.

 

Il prototipo assomiglia a una normale morsa per affettare il prosciutto, una di quelle che si vedono in tutti i supermercati, ma con alcune piccole differenze: la prima è l'aggiunta di un secondo archetto mobile, che ci permette di garantire il mantenimento della temperatura a prescindere dalle dimensioni del prosciutto. Alla morsa, che alla base ha una serie di aghi ai quali viene fissata la coscia, è poi collegato un trasformatore: quando la macchina è accesa, una corrente ad alta frequenza e a bassissima tensione (e quindi innocua per l'operatore) attraversa aghi e archetti, scaldando il prosciutto dall'interno.

 

Un microprocessore e una serie di sonde termiche garantiscono ovunque una temperatura costante. La morsa è completamente smontabile e lavabile e presenta un livello di funzionalità, usabilità e design ottimale. Naturalmente, essendo trasportabile, ci dà modo finalmente di far arrivare il prosciutto caldo anche in altre località. Possiamo dire che si tratta di un'innovazione che valorizza la tradizione. Un obiettivo che con AREA avevamo chiaro fin dai primi passi.

 

Dall'idea al piano di sviluppo

 

Per l'estero e per città particolarmente distanti, ritenendo sconveniente tenere attivata la macchina per troppe ore, abbiamo pensato a una soluzione diversa: far viaggiare il prodotto in catena fredda fino a destinazione e poi riportarlo a 60 gradi grazie a una macchina simile a quella già concepita, ma con qualche accorgimento in più. A quel punto, anche il piano di sviluppo industriale della Masè, realizzato circa tre anni fa in collaborazione con AREA, poteva spiccare il volo.

 

Le ricadute previste, per una realtà come la nostra, erano e sono tutt'altro che trascurabili: un impatto sul fatturato, a regime, di almeno 2,5 milioni di euro all'anno; una decina di nuovi posti di lavoro in azienda e qualche decina nell'indotto; nuovi investimenti, fra impianti, progetti di ricerca e servizi, per almeno 650.000 euro. Il piano prevede l'apertura di una serie di concept store marchiati «Masè Salumeria e Ristorazione», dove il cliente può mangiare direttamente all'interno del locale oppure acquistare la merce e portarla via con sé.

 

Il primo concept store ha aperto a Trieste, ma ce ne sono altri tre a Grado, Udine e Roma. Presto saranno tutti dotati della morsa elettrica. Quanti concept store riusciremo ad aprire in futuro, dipenderà dalle risorse e dalle partnership che riusciremo a instaurare: l'obiettivo è di aprire una ventina di negozi entro i prossimi due anni.

 

Sarà una sorta di franchising: abbiamo già diverse richieste da parte di imprenditori provenienti da varie città d'Europa e mano a mano valuteremo ogni singola proposta. Il concept store ci permette di controllare le vendite e la diffusione del marchio, di diffondere un format innovativo e ricette di nostra proprietà, nelle quali abbiamo abbinato prodotti della tradizione triestina (dai nostri affettati alla ricotta del Carso all'olio di Bagnoli) a prodotti croati o della Val Rendena (come lo speck).

 

Il riscontro, a oggi, è davvero buono. Se la strada della mia azienda dovesse incrociarsi di nuovo con quella di AREA, ne sarei felice: la prossima volta, prometto, lo scetticismo lo lascerò ad altri.

 

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