16.12.2014 -
I processi infiammatori fanno parte dell'arsenale di meccanismi
che l'organismo ha a disposizione per difendersi dalla varietà di
agenti e situazioni che possono arrecare danno alle cellule e ai
tessuti. Nel caso dei tumori, però, questa regola, come molte
altre, trova ampie eccezioni. Infiammazione e
cancro quasi sempre si accompagnano. Da un lato, la
presenza di cellule tumorali scatena la risposta infiammatoria che
cerca di arginarne la crescita. Dall'altro il contesto
infiammatorio getta benzina sul fuoco della malignità, alimentando
e potenziando l'aggressività del tumore e la disseminazione delle
metastasi. Non a caso, malattie infiammatorie
croniche come il morbo di Chron, le epatiti o le infiammazioni dei
polmoni dovute all'esposizione all'amianto, oltre a causare danni
specifici, mettono il paziente di fronte all'aumentato rischio di
sviluppare una malattia tumorale.
Anche se l'infiammazione è ormai riconosciuta
come uno dei tratti salienti che caratterizzano ogni tipo di
cancro, non è ancora del tutto chiara la mappa dei punti in cui
processi infiammatori e tumorali si interconnettono e agiscono in
concerto. Tantomeno si conosce l'identità di cosa dirige i diversi
eventi che portano un meccanismo di difesa come l'infiammazione a
diventare uno dei principali alleati del nemico numero uno
dell'organismo, il tumore.
Il professor Licio Collavin del dipartimento di
Scienze della Vita dell'Università di Trieste, e
il suo gruppo di ricerca al Laboratorio Nazionale CIB -
AREA Science Park di Trieste, sulle pagine della
prestigiosa rivista scientifica internazionale
Molecular Cell, hanno da poco svelato
l'identità di uno dei fattori chiave di questa
pericolosa alleanza (
www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1097276514007977).
Si tratta di una proteina, chiamata
p53, ben nota agli scienziati perché è tra quelle
che si ritrovano più frequentemente mutate nei tumori (lo è in
quasi la metà di tutti i casi di cancro). Collavin e i suoi
collaboratori hanno scoperto che le forme mutate di questa
proteina, presenti nelle neoplasie, non solo non sono più capaci di
svolgere il proprio fondamentale ruolo a guardia dell'integrità del
patrimonio genetico delle cellule, ma si comportano attivamente da
pericolosi acceleratori della trasformazione e progressione
tumorale. In che modo? Facendo sì, fra le altre cose, che le
cellule tumorali interpretino i segnali molecolari
dell'infiammazione come istruzioni a sviluppare maggiore
aggressività.
«La proteina p53 mutata che si accumula nelle
cellule tumorali - spiega Collavin - è in grado di neutralizzare un
importante fattore che controlla i segnali molecolari generati
dall'infiammazione. Inattivato questo fattore, le cellule maligne
rispondono in modo eccessivo al segnale infiammatorio e cominciano
ad esprimere un programma genetico che porta al potenziamento della
loro capacità invasiva». Togliere questo effetto della proteina p53
mutata nelle cellule tumorali significa renderle meno reattive agli
input infiammatori e, quindi, meno aggressive. Ed è quello
che tra le altre cose hanno dimostrato sperimentalmente i
ricercatori.
La rilevanza della scoperta è enorme, considerato che capacità
di invadere l'organismo e metastasi sono strettamente correlate e
che le metastasi, e non il tumore primario, sono la principale
causa di morte nei pazienti. «Non solo - precisa Collavin - poiché
la proteina p53 mutata è un mediatore cruciale nel rapporto tra
infiammazione e cancro, a seconda del contesto potrebbe essere
sfruttata per spostare l'ago della bilancia e far
tornare il sistema immunitario un alleato che
favorisca l'eliminazione del tumore durante le terapie. Il nostro
studio, quindi, apre la strada a nuove ricerche volte a sviluppare
approcci terapeutici mirati, basati sullo stato mutazionale di p53
nei diversi tumori».
Questo studio è stato realizzato grazie al fondamentale sostegno
dell'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro
(AIRC).